Psicologo a Prato

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Psicofarmaci: una breve introduzione

Posted on ottobre 28, 2009 by elcolombre
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Andy Warhol, 1983

Proprio perchè gli psicofarmaci non rappresentano il rimedio esclusivo o definitivo per il trattamento delle diverse manifestazioni di patologia mentale, mi sembra giusto rimandare il lettore ad alcune informazioni indispensabili. Ogni persona, non solo il clinico, dovrebbe possedere alcune conoscenze basilari riguardo una categoria farmacologica così diffusa e potenzialmente pericolosa. Più volte è stato ribadito come il farmaco rappresenti un valido sostegno solo se saputo somministrare e saputo togliere al giusto momento. Il rimedio farmacologico infatti, a differenza di una psicoterapia, non restituisce senso alle nostre sofferenze. Le due strategie ( farmacologica e psicoterapeutica) possono e devono sapersi integrare. Proprio per questo motivo , suggerisco la lettura di questo articolo di Michele Conte. Il testo è semplice e ben fatto, segue uno stile divulgativo ma certamente non superficiale.

Scarica il PDF: Gli psicofarmaci

Dott. Ettore Bargellini

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Disturbo ossessivo compulsivo

Posted on giugno 8, 2009 by elcolombre

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una realtà psicopatologica piuttosto diffusa. Tratti o caratteristiche di natura ossessiva si possono inoltre rintracciare in molti quadri clinici . La tendenza al controllo, all’ordine o alla schematicità è infatti un elemento assolutamente ubiquitario e, entro certi limiti, normale.Di conseguenza si potrebbe parlare di ossesivo-compulsività in continuum che si muove dalla normalità alle forme più severe di disturbo. Di seguito riporterò alcune tra le caratteristiche predominanti di questo disturbo. Vorrei però integrare a questo elenco diagnostico, che come tale non dice nè rappresenta affatto la storia di nessuno, alcune immagini tratte dal cinema. Mezzo d’espressione, assieme alla letteratura, che molto spesso sa affrontare più efficacemente di molti manuali clinici l’essenza di molti mali che affliggono l’essere umano. Qualcosa è cambiato è un film divertente ma con ottimi spunti di riflessione…..
Le caratteristiche essenziali del disturbo ossessivo compulsivo sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti che creano allarme o paura e che costringono la persona a mettere in atto comportamenti ripetitivi o azioni mentali.
Come il nome stesso lascia intendere, il disturbo ossessivo compulsivo è caratterizzato da ossessioni e compulsioni. Almeno l’80% dei pazienti con DOC ha sia ossessioni che compulsioni, meno del 20% ha solo ossessioni o solo compulsioni.
Le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi che si presentano più e più volte e sono al di fuori del controllo di chi li sperimenta. Tali idee sono sentite come disturbanti e intrusive, e, almeno quando le persone non sono assalite dall’ansia, sono giudicate come infondate ed insensate. Le persone con disturbo ossessivo compulsivo possono preoccuparsi eccessivamente dello sporco e dei germi. Possono essere terrorizzate dalla paura di avere inavvertitamente fatto del male a qualcuno, di poter perdere il controllo di sé e diventare aggressive in certe situazioni, di aver contratto malattie infettive o di essere omosessuali, anche se di solito riconoscono che tutto ciò non è realistico. Le ossessioni sono accompagnate da emozioni sgradevoli, come paura, disgusto, disagio, dubbi, o dalla sensazione di non aver fatto le cose nel “modo giusto”, e gli innumerevoli sforzi per contrastarle non hanno successo, se non momentaneo.
Le compulsioni tipiche del disturbo ossessivo compulsivo vengono anche definite rituali o cerimoniali e sono comportamenti ripetitivi (lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (contare, pregare, ripetere formule mentalmente) messi in atto per ridurre il senso di disagio e l’ansia provocati dai pensieri e dagli impulsi tipici delle ossessioni. Costituiscono, cioè, un tentativo di elusione del disagio, un mezzo per cercare di conseguire un controllo sulla propria ansia. In generale tutte le compulsioni che includono la pulizia, il lavaggio, il controllo, l’ordine, il conteggio, la ripetizione ed il collezionare si trasformano in rigide regole di comportamento e sono spesso bizzarre e francamente eccessive.
Il disturbo ossessivo compulsivo colpisce, indistintamente per età e sesso, dal 2 al 3% della popolazione. Può infatti manifestarsi sia negli uomini sia nelle donne, indifferentemente, e può esordire nell’infanzia, nell’adolescenza o nella prima età adulta
L’età tipica in cui compare più frequentemente è tra i 6 e i 15 anni nei maschi e tra i 20 e i 29 nelle donne. I primi sintomi si manifestano nella maggior parte dei casi prima dei 25 anni (il 15% ha esordio intorno ai 10 anni) e in bassissima percentuale dopo i 40 anni.
Se il disturbo ossessivo compulsivo non viene curato, generalmente tende a cronicizzare e ad aggravarsi progressivamente.
Dottor Bargellini

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Introduzione al gioco d’azzardo patologico

Posted on Maggio 29, 2009 by elcolombre

vecchi giocatori d'azzardo

 

Da tempo mi occupo con curiosità ed impegno clinico di quello che viene  descritto come gioco d’azzardo patologico (GAP). Tale dipendenza, come tutte le altre, trova la sua diffusione anche in corrispondenza dei processi di legittimazione e deresponsabilizzazione operati dalla nostra società.
Vi propongo di seguito una breve riflessione su tale argomento.

L’analisi del gioco d’azzardo ci porta a due diverse realtà.
Una di grande diffusione e innocuità dove il gioco assume la forma di una attività libera che permette alla persona di esaltare, modificare, transfigurare la realtà oltre che a crescere in modo sano rispettando la propria autonomia.
L ‘altra di grossa sofferenza e problematicità, contraddistinta da una situazione che spesso diviene intollerabile dal punto di vista personale, familiare e sociale. Riflettere sul gioco d’azzardo pretende dunque di tenere presenti entrambe le dimensioni. Il gioco d’azzardo evoca immagini contraddittorie, di divertimento e di preoccupazione, non solo relativamente all’ambito della morale e della legalità, ma anche nell’ambito più strettamente clinico ed in relazione ai sempre più evidenti e diffusi casi di patologia da gioco.Giocare può essere (dovrebbe essere) un occupazione spensierata, libera dai vincoli della vita reale, che pone tutti i giocatori sullo stesso piano. Solo così il momento ludico si traduce in esperienza irrinunciabile della vita umana, capace di rapire il soggetto, elargire gioia e liberarlo dalla ripetitività dell’esistenza.Si scopre così quell ‘importanza ontologica del gioco sostenuta da Eugen Fink nel suo saggio”Oasi della gioia” (1957).“Il gioco rassomiglia a un oasi di gioia raggiunta nel deserto del nostro tendere e della nostra tantalica ricerca .
Il gioco ci rapisce .
Giocando siamo un po’ liberati dall’ingranaggio della vita, come trasferiti su un nuovo mondo dove la vita appare più leggera, più aerea, più felice”(p.8). D’altra parte giocare d’azzardo fa anche appello al nostro desiderio di onnipotenza, ambizione che non può far altro che scontrarsi con una quantità di fattori incontrollabili. Giocare è sinonimo d’ interruzione della routine, prendersi una pausa e alleggerirsi del peso dell’esistenza. Ma se dovessimo parlare del gioco soltanto come un oasi della gioia volgeremmo la nostra attenzione solo sulla faccia luccicante di una medaglia che nel suo rovescio cela una realtà potenzialmente devastante. L’esperienza ludica può essere totalmente fagocitante da non aver più niente in comune con la sua funzione ricreativa. Così il gioco da magico può rivelarsi demoniaco.
Il momento ludico può trascinare l’uomo ,talvolta nell’arco di un’ esistenza ,talvolta con modalità più dirompenti, (ci sono storie di persone che si giocano tutto in una notte , dove sono sufficienti poche scommesse per decidere se affidare tutto ciò che si è e che si ha nelle mani della sorte) nel mondo incandescente che è tipico del gioco d’azzardo.Il mio impegno nell’affacciarmi a tale fenomeno è quello di considerarlo nei suoi molteplici aspetti , guardarlo nella globalità di una realtà antica quanto l’essere umano ma che ,da un punto di vista scientifico, è ancora ai suoi esordi. Giocatori d’azzardo lo sono potenzialmente e innocuamente tutti, in tutti albergano le stesse pulsioni di irresistibile attrazione verso il rischio contrapposte a quelle di censura e di rifiuto moralistico.Sono dinamiche che spaccano l’individuo a prescindere dalla sua patologicità.
Rischiare e azzardare emergono come componenti che evadono dallo specifico del gioco e invadono ogni aspetto della nostra vita .Il caso infatti sembra dominare la vita dell’uomo, beffando di continuo il suo bisogno di previsioni certe (Ekeland,1992).Per molto tempo ha dominato una visione del gioco d’azzardo, oltre che moralistica, elitaria, dostoevskijana ,riferita a mondi passati e diversi . Forse, proprio perchè così distante, tale rappresentazione del gioco d’azzardo ci affascina lasciandoci allo stesso tempo indifferenti.Oggi giocare d’azzardo non appartiene più soltanto a classi sociali abbienti che annoiate e aliene alla vita comune sperperano il loro denaro nei casinò. Oggi , più semplicemente e più spesso ,sono le persone come noi che dilapidano uno stipendio al bar sotto casa . Ancora oggi ,come soprattutto nota Dickerson (1984) , l’introduzione del gambling nel D.S.M. manifesta grosse lacune .Lo studio del gioco d’azzardo patologico è terreno sul quale non si incontrano pareri unanimi , a partire dai criteri diagnostici fino alla semplice definzione della categoria nosografica di giocatore d’azzardo. In letteratura l’interesse è stato rivolto soprattutto alla dimensione patologica mirando ,non senza difficoltà ,al suo inquadramento diagnostico e al suo studio come forma di addiction, recentemente però l’attenzione si è anche indirizzata verso la comprensione dell’aspetto sociale del gioco d’azzardo e quindi all’aspetto non patologico dello scommettitore occasionale e di quello abituale (Lavanco,2001).
Parlare di gioco d’azzardo vuol dire confrontarsi con un fenomeno la cui complessità e l’ambivalenza, si articola su un probabile e drammatico continuum che comprende una zona di gioco mondo mondo ricreativo Caratterizzato da divertimento e socializzazione, fino a giungere ad una deriva fatta d’abuso e di sofferenza. Si può perciò descrivere un’ampio percorso che nasce dalle origini storico-antropologiche del gioco e che nei secoli, attraverso diversi paradigmi, giunge a una visione medico-psicologica dell’azzardo. Perché dell’azzardo si può parlare come dell’eterna passione umana per il rischio, ma anche, nellla deriva della dipendenza, attraverso le più recenti prospettive terapeutiche.

Dott. Ettore Bargellini

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Uscire dalla cocaina

Posted on Maggio 7, 2009 by elcolombre
Tamara De Lempicka

Tamara De Lempicka

Uscire dalla cocaina

Nonostante la cocaina sia diventata una droga tra le più consumate i servizi territoriali e le comunità soffrono un grave ritardo rispetto alla messa a punto di programmi specifici per la cura e la riabilitazione dei cocainomani. Questo soprattutto in ragione dell’attenzione quasi esclusiva che per molti anni è stata rivolta all’eroina e all’alcol. Soltanto in tempi più recenti ci si è accorti che la cocaina stava rapidamente diventando la droga di tutti, anche della gente normale, e che probabilmente andava affrontata attraverso le sue specifiche caratteristiche e gli specifici effetti che provoca sulle persone che ne fanno uso.
Come è noto la cocaina è un eccitante di conseguenza i suoi effetti agiscono sulla personalità dell’uomo in direzione dell’esaltazione, dell’euforia, dell’onnipotenza, in ogni caso allontanando il soggetto da quella condizione necessaria per riconoscere i propri limiti e chiedere aiuto. Questo è forse l’aspetto più incidente sulla difficoltà dei servizi nel curare la dipendenza da cocaina. Spesso chi ne fa uso, nonostante il bisogno crescente della sostanza, lavora, frequenta gli altri, si sente attivo, produttivo, è in qualche modo inserito. Di conseguenza l’immagine, se pur artefatta, che ha costruito di se stesso non lascia spazio alcuno all’accettazione di aver un problema e di essere collaborativo con chi vorrebbe aiutarlo ad accettarlo.Insomma, il Sert, le comunità, l’ospedale, sono per i drogati, per gli alcolisti, per i perdenti, non per chi si sente forte ed infallibile come molti cocainomani. Così sembrano ragionare, soprattutto all’inizio della terapia, molti cocainomani. E’ chiaro che niente come la cocaina può arrivare ad accarezzare così efficacemente il lato narcisista delle persone.E qui veniamo al nodo centrale della dipendenza da cocaina. Perchè sotto l’armatura luccicante che il cocainomane si è messo addosso, c’è forse un un uomo o una donna che non può permettersi di sentirsi fragile, insicuro, bisognoso dell’aiuto dell’altro. La cocaina serve esattamente a quello, a scacciare la paura intollerabile di essere debole, non all’altezza, inadeguato ad un mondo che può essere affrontato solo se aiutato dalla spinta della coca. Così mentre ci si sforza i convincere la gente a non usare cocaina e la si sottopone ai percorsi di disintossicazione, parallelamente ci deve essere chi aiuta la persona a mettersi in contatto con quella parte fragile e nascosta. Credo sia questo, in ultima analisi, il compito psicoterapeutico da porsi con chi fa uso di cocaina. Uscire dalla dipendenza, non può essere un semplice esercizio all’astinenza, ma anche una ricerca di quei bisogni inespressi che la sostanza, da un certo momento in poi, ti ha fatto credere di non avere più.

Dott. Ettore Bargellini

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Il lutto: Viverlo e superarlo.

Posted on Maggio 6, 2009 by elcolombre
Andrea Boyer

Andrea Boyer

Affrontare l’assenza di qualcuno è un momento doloroso ed inevitabile della vita. Sebbene la morte sia un concetto ed un fenomeno costante nell’esistenza dell’uomo, quando la persona che ci è stata accanto scompare non si può essere mai abbastanza preparati. Vivere il lutto è un momento spesso contraddistinto da grande sofferenza ed intensità emotiva ma allo stesso tempo risulta indispensabile per la crescita delle persone. Di solito la corretta elaborazione del lutto prevede il susseguirsi, non sempre con un ordine preciso, di alcune importanti fasi che consento all’individuo un pieno superamento dell’evento. La letteratura su tale argomento è enorme,accade quindi che si possano incontrare argomentazioni sinceramente riduttive ed improbabili su come le persone debbano vivere il lutto in modo “normale”. E’ difficile pronunciarsi su quanto e come l’uomo debba soffrire nel momento in cui l’altro se ne va per sempre. Quello che l’esperienza psicoterapeutica mi ha insegnato è che di attraverso il lutto ci si può ammalare, nel senso che anche la vita di chi rimane può arenarsi e rimanere impigliata nel vuoto che la morte ha lasciato.I manuali diagnostici parlano, da un punto di vista esclusivamente descrittivo e generale, di un anno di tempo entro il quale le tipiche emozioni e reazioni alla morte dovrebbero diventare qualcosa di accettabile per i soggetti. Forse è vero. Ma affrontare la morte di qualcuno a cui abbiamo voluto bene o al quale ci siamo legati (un figlio, un genitore, un familiare, una relazione che non è più tale) non è soltanto una semplice questione di tempo che scorre. Ciò che permette alle persone di elaborare un lutto è la possibilità e lo spazio per poter vivere le emozioni che la morte porta con se. Disperazione , solitudine, rabbia, colpa, paura ma anche ( e non è affatto raro) senso di liberazione o apparente indifferenza. La morte sottopone l’uomo ad un ampio ventaglio di emozioni e l’uomo, se vuole continuare a vivere, non può far altro che concedersele e dargli un senso. Il problema, a volte il sintomo, si verifica quando tutto questo sentire, non può o non deve verificarsi compiutamente, quando i vivi , per una serie di ragioni, bloccano le loro vite e le loro risorse emotive. Ci sono persone che se ne vanno facendoci sentire soli, inutili, oppure segretamente arrabbiati. Altre ci lasciano senza averci dato la possibilità di dirgli quanto erano importanti per noi o senza mai avergli chiesto scusa. Sono molteplici, aldilà delle diverse sintomatologie, le cause che stanno dietro ad un lutto non affrontato e non elaborato.I motivi per cui il dolore rimane così profondo da non poter essere attraversato sono di solito ben celati. In questo caso la psicoterapia non rappresenta certo un modo per cambiare ciò che non potrà mai essere cambiato. Di sicuro, là dove una persona non ci riesca con le sue forze, è una strada per accettare e convivere meglio con le ferite. Scrivo queste poche righe soprattutto per ribadire il concetto che la dove c’è un dolore che è stato affrontato e superato è perché qualcuno si è permesso di viverlo fino a fondo, fino al punto di lasciare quel peso ed andare avanti.

Dott. Ettore Bargellini

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Una domanda sull’Ipocondria

Posted on gennaio 26, 2009 by elcolombre

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Ci è stata sottoposta una domanda riguardo l’ipocondria.

Nel seguente articolo oltre ad informazioni di carattere generale e descrittivo, proverò ad introdurre anche alcuni spunti interpretativi  per tale condizione.

 

Domanda: E’ da circa un anno che mi sento teso e preoccupato di avere qualcosa che non va, dopo un anno di visite mediche di vario genere mi è stato detto che “ e’ SOLO IPOCONDRIA” come se la cosa mi potesse aiutare in qualche modo, potrebbe darmi qualche informazione in più?

Ringraziando  in anticipo vi  saluto.

I.I.

 

Risposta: Non è raro che dopo lunghi peregrinaggi da uno specialista all’altro senza ricevere né una diagnosi precisa né una risposta rassicurante , venga suggerita al paziente l’ipotesi di una generica “ipocondria”. Nel peggiore dei casi ci si può sentire liquidati da un’altrettanto generico “ Non si preoccupi lei è soltanto un po’ stressato”.Comunque dando per scontato che l’indicazione da lei ricevuta sia corretta, il nodo centrale del problema non ha tanto a che fare con l’essere affetto da una qualche malattia ( cosa che  va in ogni modo verificata) ma con l’ansia e la preoccupazione di poterlo essere.

Capisco quanto possa essere spiacevole la sensazione di essere malati e non riuscire a trovare in chi ti dovrebbe aiutare una soluzione rapida e convincente.

Nella condizione ipocondriaca è come se la persona avesse la paradossale necessità di sentirsi dire che è malata per poter tirare un sospiro di sollievo.

L’ipocondria infatti viene definita come il timore , e a volte la convinzione, da parte del soggetto di essere affetto da un qualche tipo di malattia che però non viene riscontrata da un punto di vista strettamente medico.

Ciò che risulta  importante sottolineare è che non si tratta né di simulazione, né di menzogna da parte del soggetto il quale si trova effettivamente a soffrire  un insieme di disagi che ne minacciano l’autonomia, le relazioni ed il lavoro.

Molto frequentemente la persona trascorre il suo tempo in uno stato di allerta, sempre attenta a rilevare anche il più piccolo ed insignificante cambiamento corporeo, spesso interpretandolo, dopo lunghe e sofferte ruminazioni,come segni inequivocabili di patologia.

Con il tempo, la convinzione di essere affetti da qualche male non trova più conferma da parte dei medici e dei familiari,facendo sentire la persona sola, incompresa ed indifesa nei confronti della propria sofferenza.

A volte l’assidua frequentazione di medici, la lettura di riviste di settore, rende queste persone dei pazienti molto preparati ed esigenti.

Di conseguenza possono non  accontentarsi di una semplice visita generica e delle rassicurazioni del proprio medico sulla loro salute, spesso  continuano in una disperata ricerca della loro patologia attraverso visite  ed analisi specialistiche sempre più approfondite.

Altro aspetto paradossale e complicante dell’ipocondria è che al momento in cui il medico, credendo di rassicurare il proprio paziente, comunica che non c’è niente di cui preoccuparsi, il soggetto può sentirsi deluso e trascurato da chi dovrebbe aiutarlo a guarire.

È chiaro che la persona ipocondriaca è vittima di una sequenza circolare ed auto rinforzante di eventi che irrigidiscono la sua situazione e sembrano impedire una via d’uscita:

 

MI SENTO MALATO E MOLTO ANSIOSO perché NON CAPISCO COSA POSSA ESSERE → MI RIVOLGO AD UN MEDICO PERCHE’ POSSA AIUTARMI→ QUESTO INVECE AUMENTA I MIEI DUBBI E LA MIA SENSAZIONE DI IMPOTENZA E RABBIA→ I SINTOMI ANSIOSI SI ACUISCONO ASSIEME ALLA PERCEZIONE DI DEBOLEZZA E FRAGILITA’………E IL CICLO SI RIAVVIA.

E’ ovvio che se questa sequenza di eventi non viene interrotta la persona difficilmente riuscirà da sola a risolvere le sue difficoltà

Un intervento psicoterapeutico in questo caso aiuta innanzitutto a spostare il fuoco dell’attenzione dalle presunte cause organiche del sintomo alle dinamiche psicologiche e relazionali sottostanti.

Spesso dietro al controllo che la persona cerca di esercitare sul proprio corpo e sulle sue reazioni si può celare la necessità di controllare e ricevere le attenzioni dalle persone che stanno più vicine al soggetto.

Come ogni altro sintomo l’ipocondria ha un suo significato ed una sua funzione se collocato all’interno della storia del paziente e del contesto in cui vive.

In molti casi la condizione di malato blocca il sia il soggetto che le persone che gli stanno attorno, magari “proteggendolo” da situazioni che non vorrebbe o non può affrontare.

La psicoterapia , una volta escluse le possibili cause mediche, può certamente aiutare le persone con tratti ipocondriaci ad intraprendere un cammino verso una maggiore autonomia. Tale “sentiero” potrebbe addirittura richiedere più coraggio che farsi diagnosticare una malattia.

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Teorie e Nichilismo

Posted on dicembre 15, 2008 by elcolombre

galimberti

« Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere. »                                

(Friedrich Nietzsche)

 

Il Nichilismo come motore inconscio degli atti, altrimenti inspiegabili di alcuni dei giovani di oggi. Galimberi con lucidità e disincanto disegna una motivazione (nulla in realtà) al perché si gettano sassi dal calvalcavia, perché ci si accoltella per una tracklist, perché si da fuoco ad un barbone che dorme su di una panchina. Ne esce una ritratto amaro e sospeso. Le nuove generazioni come sacchi vuoti o come vuoti a rendere, incapaci di un emozione, incapaci di quella caratteristica fondamentale per il proseguio della specie che è l’empatia. Un buon testo su cui riflettere.

Dott. Cristiano Pacetti

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Giusto un consiglio…

Posted on ottobre 16, 2008 by elcolombre

Vorrei in questo breve articolo fare chiarezza una volta per tutte su quella figura, spesso pubbicizzata su elefantiaci manifesti anche nella nostra città che risponde al nome di Counselor, ovvero l’esperto di couselling psicologico.

Lo psicologo uscito dall’Università ha dovuto studiare almeno 5 anni, farsi un anno di tirocino e sostenere l’esame per l’iscrizione all’albo. Lo psicoterapeuta dopo l’iscrizione all’Ordine (dei medici o degli psicologi) diventa tale dopo altri 4 anni di studio (più vari tirocini).

Counselor lo si diventa dopo 3 anni di corso. Il counselor deve svolgere un lavoro diverso da quello dello psicologo e dello psicoterapeuta. IL COUSELOR NON PUÒ FARE TERAPIA. L’Ordine degli Psicologi della Toscana a questo proposito ricorda che: “[…] occorre ricordare che spesso i promotori di corsi di “counselling” di varia declinazione sostengono che gli stessi non hanno la funzione, né tantomeno la possibilità legale, di trasmettere competenze e tecniche di natura psicologica, essendo tale aspetto appannaggio esclusivo della nostra professione;  questa è la stessa posizione sostenuta dai colleghi che insegnano nei corsi di counselling, in quanto essi sono vincolati dall’articolo 21 del nostro Codice Deontologico: “Lo psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo, a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche. È fatto salvo l’insegnamento agli studenti del corso di laurea in psicologia, ed agli specializzando in materie psicologiche “.

Quindi, nell’interesse degli utenti e per favorire una reale cultura del benessere psichico informatevi prima di rivolgervi ad uno specialista, pretendete di conoscere i suoi titoli e denunciate chi fa ma non potrebbe.

Dott. Cristiano Pacetti

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Psicologo e Psichiatra: meglio collaborare

Posted on ottobre 5, 2008 by elcolombre

 

Sebbene lo psicologo e lo psichiatra siano professionisti con percorsi formativi e modalità d’intervento diverse è ormai totalmente superato lo stereotipo che vorrebbe le due figure in antitesi tra loro. Troppo spesso si è ritenuto che l’intervento dello psicologo sia del tutto scisso ed alternativo a quello dello psichiatra. Non è difficile sentirsi dire dalle persone ,anche dai medici, frasi del genere: “lo psichiatra è quello che ti imbottisce di psicofarmaci, lo psicologo invece è quello che parla. Tutto questo, oltre che falso, rappresenta un’idea fuorviante e controproducente per i pazienti. Tale imprecisione infatti  ha portato nel tempo ad una visione frammentaria, dicotomica, sia della salute mentale, sia degli interventi per promuoverla. Insisto nel ribadire che l’approccio di stampo medicale- farmacologico, caratteristico della psichiatria, non esclude  quello di carattere dialogico –  interpretativo  tipico dell’intervento psicologico. Numerose evidenze scientifiche, oltre che all’esperienza clinica, dimostrano come molte diagnosi  rispondano in tempi più brevi e con risultati più duraturi nel tempo quando l’intervento di tipo farmacologico viene integrato con quello psicologico. Spesso l’urgenza sintomatologica più acuta ed invalidante può essere contenuta attraverso il rimedio farmacologico, esso però non deve rappresentare l’unica risposta al disagio. Durante il mio lavoro come psicologo a Prato mi è spesso capitato di collaborare, con ottimi risultati e con grande soddisfazione, con psichiatri e medici di base. L’immagine che spesso utilizzo per rappresentare la nostra collaborazione è quella della staffetta: può capitare infatti che molti pazienti si siano rivolti, come primo approccio ai propri disturbi, allo psichiatra il quale dopo una valutazione diagnostica ed un attenuamento dei sintomi può lasciare il testimone allo psicologo. Così mentre quest’ultimo lavorerà con il paziente per capire e risolvere i meccanismi psichici alla base delle sue sofferenze, il primo  si muoverà  sullo sfondo, aiutando il paziente nel progressivo scalaggio del farmaco evitandone la dipendenza fisica e psichica.

Dott. Ettore Bargellini

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Psicologo a Prato

Posted on ottobre 20, 2007 by elcolombre

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Tocca a me inaugurare questa nuova avventura, un blog curato da tre psicolgi che cercherà d’occuparsi di notizie inerenti il mondo della nostra professione (quella di psicologo) e, nel contempo, raccontare ciò che succede nella nostra città: Prato. Cosa significa essere psicologi a Prato? Significa doversi costantemente confrontare col momento storico che la città sta vivendo, entrare, vivere e  respirare quell’aria di sfiducia così diffusa, tra le vie di quella che fino a soli dieci anni fa era una della città più ricche della Toscana. Sono cambiate tante cose in così poco tempo, Prato oggi è una città multietica, aperta, alla costante ricerca di una nuova, forte identità. Identità che cerca di manifestarsi nella nuova spinta al turismo, alla gastronomia, al terzairio più in generale. Così essere psicologi in una città in costante mutamento, è una sfida, una sfida che si può vincere solo con preparazione, professionalità e passione.

Dott. Cristiano Pacetti

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www.pratopsicologo.it

Contatti

Dott. Cristiano Pacetti
Psicologo; Psicoterapeuta;
Consulente Tecnico d'Ufficio
dott.pacetti@gmail.com
Tel. 393 - 7009673
N°iscr. Ord. 3656

Dott. Ettore Bargellini
Psicologo; Psicoterapeuta
ettorebargellini@libero.it
Tel. 338 - 3532468
N°iscr. Ord. 4081

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