Artrite Reumatoide, Stress e Pesce Azzurro.

3 volte alla settimana…

Uno studio dell’Università di Stoccolma avrebbe identificato nel consumo di pesce azzurro una buona fonte di protezione per l’insorgenza della Artrite Reumatoide. Lo studio però non si è limitato a cercare i fattori di protezione, andando a trovare anche quelli che sono i fattori di rischio, su tutti due: il fumo e lo stress.
Così se è vero che l’artrite reumatoide ha delle grandi componenti genetiche è sempre più dimostrato che lo stile di vita del singolo è potenziale motivo di miglioramento o di aggravamento di questa patologia cronica.

Dott. C. Pacetti

Prato e la Crisi, binomio indissolubile?

Immagine

Negli ultimi anni si è certamente abusato della parola “crisi” la si è messa un po’ dappertutto, al servizio di ogni spiegazione, dalla più banale alla più complessa. Per colpa della “crisi” le persone si sono date fuoco davanti al Municipio, per colpa della “crisi” si sono persi soldi, lavoro e dignità. E’ sempre la crisi che ha ridotto il centro di Prato ad una sequenza disarmante ed avvilente di serrande serrate e cartelli fluorescenti (ormai stinti) con su scritta la parola “vendesi” od “affittasi”. La “crisi” condiziona pensieri ed azioni. Non si va in ferie perché c’è la “crisi”, la “crisi” dei valori e dell’autorità permette a qualcuno di sputare in terra e di non raccogliere le deiezioni dei loro cani.

La “crisi” è, piano piano, diventata una condizione esistenziale. Eppure il significato della “crisi” sta tutto nella transizione, nel mutamento; si dovrebbe “attraversare” una crisi per giungere a qualcos’altro, ad un altra condizione diversa dalla prima (non necessariamente migliore). Per rendere questo ragionamento più comprensibile farò una cosa che Oscar Wilde odiava ovvero un esempio: da una crisi cardiaca, o se ne esce, e si torna a vivere (possibilmente in modo più tranquillo), o non se esce e si muore: NON si può vivere anni in crisi cardiaca.
Invece da qualche tempo a questa parte si tenta  l’attraversamento di una “crisi” per  rendersi poi conto che sull’altra sponda comincia una nuova “crisi”, e questo crea un continuum sfiancante.

Certo i tempi non sono floridi ma basta guardare indietro per rendersi conto di come ogni generazione abbia avuto i suoi problemi, dalle guerre alle malattie, dai periodi di povertà alla vita violenta cui da sempre l’uomo è costretto.
Il vero nocciolo della questione, io credo, è che l’essere umano è immutato da millenni, ciò che cambia sono solo gli strumenti che ha d’intorno (e quindi dentro); non ci sono differenze tra gli stupri di massa che venivano perpetuati nei villaggi conquistati, i roghi pubblici, le torture e la fame e ciò che oggi, in “pacchetto deluxe” ci viene proposto dai media. La cosa di cui c’hanno convinto (lo “strumento” che c’hanno dato) è che c’è una “crisi”, anzi, non UNA “crisi” ma LA “crisi”, ed è con questa semplificazione che tentano (tentiamo) di spiegarci tutto. La realtà invece è infinitamente più complessa e non passa certo attraverso una parola sola.

Personalmente non so se c’è davvero questa “crisi” (e non parlo di quella economica, per quella basta saper leggere dei numeri), ma so che questa parola è stata spalmata ovunque ed è ormai molto difficile da spiccicare dalla testa di ognuno di noi. Se non c’è cambiamento non è crisi. Quindi, o cominciamo a cambiare, in modo profondo (e spero, proficuo) o troviamo qualcos’altro che spieghi quello che stiamo vivendo, possibilmente fatto di qualche parola in più.

Sconfiggere l’alcolismo

bottiglia

A definire l’alcool come droga è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’alcool non fa “categoria a sé”, non è corretto dunque parlare di droga ed alcool perché l’una è l’altra cosa. Questo a livello di sostanza. A livello sociale invece la distinzione c’è ed è molto netta. Nessuno (o meglio quasi nessuno) insisterebbe affinché il proprio figlio di 8 anni festeggi il compleanno della zia facendo un tiro di marijuana, ma con un sorso di “spumantino” dolce sì. L’alcool e i suoi derivati sono fortemente inseriti e connaturati al nostro vivere sociale, alle occasioni speciali, allo stare insieme in convivialità; non a caso si parla di ENO-gastronomia, dove il suffisso “eno” (cioè vino) si è legato in maniera simbiotica al cibo, al buon mangiare e dunque buon vivere. In TV non è raro sentire opinioni che esaltano le qualità nutritive di un buon bicchiere di vino a pasto (pranzo e cena) e le pubblicità non fanno che rinforzare l’assioma bere=divertirsi=belle ragazze/i.

Da anni orami sono impegnato attraverso l’associazione ACAT, nella conduzione dei gruppi di ex-alcolisti e la realtà è tristemente molto lontana dal mondo scintillante, innocuo ed ovattato che spesso viene dipinto attorno al consumo di alcool. L’alcool è infatti la prima causa di morte in UE prima di trenta anni e rappresenta in assoluto la DROGA più pericolosa per danni diretti ed indiretti. Uscire dall’alcolismo inoltre è spesso più difficile che abbandonare altre sostanze data l’elevatissima reperibilità e la grande accettazione sociale. Dicevamo, “è più difficile” il che non significa “impossibile”. Il senso di sconforto e di impotenza che spesso avvolge la famiglia dell’alcolista può trasformarsi in spinta a cambiare se si utilizza un approccio terapeutico che sappia sfruttare tutte le risorse possibili (famiglia o familiari su tutti). Uscire dall’alcolismo è possibile a patto però che l’impegno sia da parte di tutto il “sistema famiglia” e non solo del diretto interessato o del familiare che più soffre.

Dott. Cristiano Pacetti

Steve Jobs e il suo discorso alla Stanford University

Ieri, 6 ottobre 2011 è morto Steve Jobs, un uomo che ha saputo entrare nella vita di milioni di persone, modificandone abitudini e comportamento. Noi vorremmo rendergli omaggio pubblicando il testo integrale del suo famoso discorso tenuto davanti ad una platea di neo-laureati della Stanford University; ma non lo pubblichiamo in questo sito solo per ricordare il grande ideatore che fu, ma anche e soprattutto perché è un bel discorso, un bel modo di raccontarsi e un testo pieno di speranza e umanità. E’ senza dubbio un testo terapeutico e speriamo che ognuno di voi sappia trarre qualcosa da queste belle parole.

Dott. Cristiano Pacetti

“È per me un onore essere qui con voi, oggi, alle vostre lauree in una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. Anzi, per essere onesto, questa è l’esperienza più vicina ad una laurea che mi sia mai capitata. Oggi voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.

La prima storia: unire i puntini

Lasciai il Reed College dopo il primo semestre, ma continuai a frequentare in maniera ufficiosa per circa 18 mesi prima di abbandonare definitivamente. Perché mollai?

Tutto cominciò prima che nascessi. Mia madre biologica era una giovane studentessa di college non sposata e decise di darmi in adozione. Credeva fortemente che avrei dovuto essere cresciuto da persone laureate e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare alla nascita da un avvocato e da sua moglie. Quando arrivai al mondo, però, loro decisero all’ultimo minuto che preferivano una bambina. Così i miei genitori, che erano in lista d’attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte: “C’è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?”. Loro risposero: “Certamente”. Solo dopo, mia madre biologica scoprì che mia madre non si era mai laureata e che mio padre non aveva neanche finito il liceo. Rifiutò di firmare le ultime carte per l’adozione. Accettò di farlo mesi dopo, solo quando i miei genitori promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college.

Continua a leggere

Stress e Lavoro: istruzioni per l’uso.

E’ finalmente uscito il nostro libro, un pratico manuale su come poter rendere il modo di lavorare e l’ambiente lavorativo il meno stressante possibile. Riportiamo di seguito un estratto dall’introduzione. Se qualcuno fosse interessato all’acquisto può contattarci tramite email.

Introduzione

A un certo punto della sua lunga esistenza, quando ormai sentiva l’avvicinarsi della fine del suo tempo e la sua persona era circondata da un’aura quasi mistica, fu rivolta questa domanda al professor Freud: «Ma dottore, alla fine qual è la ricetta per vivere una vita felice?». Freud aspettò qualche secondo, ripassò la domanda nella sua mente e, come capita a volte alle menti geniali, riassunse la ricetta in due parole: «Amore e Lavoro». Può sembrare semplicistica ma davvero non lo è. Infatti è facile pensare che quando una persona vive una vita sentimentale appassionante e appagante e ha un lavoro che lo fa sentire realizzato, allora manca davvero poco affinché possa aspirare alla felicità.

Ciò però genera anche un’altra riflessione, una riflessione sull’importanza che il lavoro ha nella vita dell’essere umano, ma ancora prima: «Cosa significa lavorare?». Se guardiamo all’etimologia latina il termine Labor significa fatica, e per fatica s’intende proprio quella fisica, quella del sudore e delle mani spaccate, quella della schiena ricurva e dei pesi sollevati. Si faticava per vivere perché niente era concesso all’essere umano, tutto doveva essere conquistato. Oggi, nella società occidentale, il lavoro di “fatica” pura non esiste quasi più, o per meglio dire rappresenta una piccola percentuale sul totale dei lavoratori. Ci sono macchine che aiutano a spostare carichi pesanti, che aiutano a spaccare la pietra, che aiutano ad arare i campi. Certo non si scappa “dalla macchina”, non è possibile affrancarsi dal lavoro, la fatica permane anche se in forme diverse. Un altro cambiamento fondamentale è che il lavoro serve sempre alla sopravvivenza dell’uomo, ma serve a un particolare tipo di sopravvivenza, a quella che si potrebbe definire come “sopravvivenza sociale”. Non si lavora esclusivamente per procacciare il cibo alla fami- glia, ma anche per garantire a noi stessi e ai nostri cari la possibilità di godere degli agi che oggi sono dati per scontati, e che sono ormai alla base della nostra quotidianità. Il lavoro rappresenta (o per meglio dire “dovrebbe rappresentare”) la base sicura dalla quale poter far partire e sviluppare i nostri progetti di essere uma- no: una casa, una famiglia, una continuità temporale. Purtroppo non è più così. Il “posto fisso” è diventato quasi una chimera. Il mercato del lavoro ha subìto e sta continuando a subire una profonda trasformazione. Forme contrattuali di precariato non consentono più una progettualità a lungo termine, né una sicurezza sulla quale poter fare affidamento.

Con felicità per il lavoro svolto,

Dott. Cristiano Pacetti & Dott. Ettore Bargellini

 

la psicologia ed il Reparto di Reumatologia d Prato

E’ con l’orgoglio di chi ha visto crescere giorno dopo giorno un progetto e l’ha visto diventare grande e forte che pubblichiamo l’articolo che il Tirreno ci ha dedicato. Non vorremmo aggiungere altro se non la nostra gratitudine a chi a creduto che questo potesse diventare possibile e ha dato il suo contributo.

 

Dott. Cristiano Pacetti &

Dott. Ettore Bargellini

Psicologia e Malattia Reumatica

Quella che troverete in allegato a questo post, è il frutto di due anni di lavoro presso il reparto di reumatologia dell’ospedale di Prato, sotto l’egidia dell’Associazione Toscana Malati Reumatici (A.T.Ma.R.). Siamo molto felici di poter condividere con chi vorrà questa versione “semplificata” di una ricerca certamente innovativa e, speriamo per voi, interessante.

Per poter scaricare il PDF cliccate Ricerca Atmar.

dott. Cristiano Pacetti & dott. Ettore Bargellini

Stress: un’altro modo per affrontarlo (parte 1)

bruce nauman

Stress: una forma di linguaggio!

Cosa pensereste se vi dicessimo che lo stress, per quanto spiacevole sia, rappresenti soltanto una delle svariate forme di comunicazione a disposizione dell’uomo?
Per spiegare questo concetto c’è bisogno di fare un passo indietro e partire da uno degli assiomi fondamentali della comunicazione umana: “ l’uomo non può non comunicare”.
Questa sentenza così lapidaria ci ricorda che ogni nostro comportamento, azione e persino sintomo può e deve essere inscritto all’interno di una qualche relazione.

Ok, se siete degli eremiti e passate la vostra esistenza nella solitudine più severa, forse avete sbagliato lettura. Tutto il resto degli individui che vive e lavora a contatto con propri simili può proseguire.

In funzione di quanto appena scritto ogni situazione che prevede la presenza di almeno due persone riconosce alla totalità delle nostre manifestazioni una funzione comunicativa. Di conseguenza, a prescindere dall’ambiente, dobbiamo concludere che se le persone condividono lo stesso spazio esse sono continuamente impegnate a comunicare. A pensarci bene la nostra vita è interamente scandita da contatti con l’Altro.
La famiglia, la coppia, la scuola, lo sport e, dulcis in fundo, il lavoro.
Certo, le forme d’espressione del nostro repertorio sono molteplici, più o meno efficaci e volontarie; così tutto quel corteo sintomatologico che accompagna lo stress lavorativo può assumere un significato per coloro che ci circondano. Sebbene possa apparire come un dramma tutto personale, lo stress sul lavoro nasce e si esprime prevalentemente in un luogo condiviso con l’Altro (colleghi, clienti, superiori, ecc.)
Di conseguenza gli altri, non solo contribuiscono attivamente al nostro stress, ma ad esso reagiscono e possono essere parte della sua soluzione.
Nella maggior parte dei casi chi lavoro sotto la gogna dello stress non riesce a interpretare e gestire le proprie difficoltà all’interno delle relazioni che vive, manca cioè di una visione più ampia e interconnessa all’altro. La tendenza più comune è quella di chiudersi nel proprio problema, ritenendo gli altri inadatti, insensibili, responsabili delle nostre sventure o incapaci di poterle risolvere. In definitiva ci escludiamo dalla possibilità di vedere il problema attraverso una prospettiva allargata, gli esperti direbbero sistemica, che faccia leva sugli aspetti relazionali dello stress. Le manovre di sterile irrigidimento e chiusura sono evidenti nei tipici processi mentali del lavoratore stressato. Si stabiliscono di fatto pensieri ricorsivi e senza via d’uscita che imprigionano il pensiero in uno schema tanto ripetitivo quanto inutile.
Il tipico esempio è quello di una persona (e ce ne sono molte) che vive il lavoro come una tortura insopportabile, consacrando l’intera giornata a pensare al momento in cui tornerà a casa per mettersi finalmente a riposo. Lavora al limite della sopportazione, costantemente sull’orlo di una crisi, vorrebbe risolvere il problema ma in realtà confida soltanto nel momento tanto atteso in cui tornerà a casa, come sempre sfinito, per gettarsi sul divano o sprofondare sul letto. In sostanza si è rassegnato a sopportare, non ad affrontare la situazione, si rimette passivamente alla fuga dal lavoro una volta arrivate le tanto agognate cinque del pomeriggio.
Finalmente torna a casa! Teso, traumatizzato da otto ore di calvario quotidiano, non gli sono rimaste energie neanche per salutare la moglie. L’abbonamento in palestra è scaduto ormai da mesi e gli amici hanno smesso da tempo di provare a coinvolgerlo. In effetti quando una persona torna da lavoro in condizioni tanto disastrate pensa soltanto a una cosa: riposare.
Così lui ci prova a recuperare ma… strano, non ci riesce fino in fondo. C’è un pensiero ridondante e molesto che pare non abbandonarlo più: domani deve andare a lavoro.

Farmaci, psicofarmaci e parafarmaci.

In merito all’articolo di ieri sull’uso degli psicofarmaci, ho trovato oggi un’interessantissima ricerca effettuata sull’aumento delle prescrizioni dei farmaci in generale. L’articolo è molto ben scritto e molto, molto interessante, per leggerlo nella sua interezza cliccate QUI
Di seguito voglio riassumere alcuni tra gli elementi più interessanti (a mio avviso) dello scritto.
In Inghilterra, il numero di farmaci prescritti è raddoppiato negli ultimi 20 anni, con un incremento annuale che attualmente si attesta intorno al 4-5%.

  • Le industrie farmaceutiche investono nel marketing dal 20 al 30% del proprio budget (significativo è il confronto con gli investimenti in ricerca e sviluppo, che rappresentano invece il 10-20%).
  • La medicalizzazione alimenta l’incremento dell’utilizzo di farmaci. I medici, sia come clinici sia come ricercatori, possono infatti contribuire, consapevolmente o inconsapevolmente, ad un’espansione dei limiti del patologico come è avvenuto ad esempio nell’ambito delle patologie psichiatriche (a questo proposito basti ricordare tutte le “nuove dipendenze” dallo shopping, alla dipendenza da lampada abbronzante).
  • Infine, (si legge sempre nella ricerca inglese) la capacità dei governi di agire come “potere contrastante” viene limitata dalle efficaci attività di lobby dell’industria e dal suo peso nell’economia del paese. Infatti, sebbene i governi abbiano un forte interesse a ridurre la spesa pubblica attraverso la regolamentazione dei prezzi dei farmaci, essi possono trovarsi in una situazione di conflitto per il concomitante desiderio di non danneggiare le industrie farmaceutiche, in quanto forniscono un valido contributo all’economia del paese.

Dott. Cristiano Pacetti

Attacchi di panico ed ansiolitici


Sempre più spesso è possibile assistere ad interventi da parte di medici sui diversi media che, senza troppo lasciare alla disanima dei casi proposti, consigliano di cominciare a prendere ansiolitici di varia natura alla prima comparsa di un attacco di panico (o addirittura alla prima comparsa di sintomi di natura ansiosa). Lungi da me l’idea di pensare che questi siano i dettami di una logica di mercato che vede nel farmaco (e dello psicofarmaco più in particolare) una fetta consistente degli introiti delle case farmaceutiche. Resta allora da capire perché, si consiglia l’immediata assunzione di benzodiazepine, quasi senza neanche ascoltare i motivi ed il CONTESTO in cui il paziente accusa la comparsa dei sintomi di matrice ansiosa. Quello che più e più volte, assieme al collega Bargellini, abbiamo detto sulle pagine di questo blog, e che ancora oggi voglio io ribadire è che una pillola, per quanto efficace non da un senso alle cose, e rimane pertanto efficace solo e solamente nel momento in cui la si assume. Con questo non intendo certo svilire l’efficacia della farmacopea, che in alcune situazione è essenziale al superamento della patologia psichica (come, ad esempio nel caso di gravi depressioni o in gravissime sindromi ansiose), MA a questa si dovrebbe sempre affiancare un supporto tipo psicoterapeutico. La psicoterapia ad oggi è il più mirato e preciso intervento di modificazione psichica cui disponiamo. Certo c’è da saperla fare, ed è molto più difficile della prescrizione di una medicina.

Dott. Cristiano Pacetti